Ai Quartieri di Arezzo sono state affidate alcune grandi famiglie aretine del medio evo ripartite in casate di città e del contado.
Arezzo fu per motivazioni storiche, sicuramente una tra le città della Toscana che poteva vantare il maggior numero di antiche famiglie aristocratiche, tutte di investitura imperiale. La suddivisione è almeno inizialmente artificiale: le gradi famiglie di città erano in realtà famiglie feudali trasferitesi dal territorio in Arezzo attrattevi dal potere vescovile prima e comunale dopo.
Il corteo che anticipa la Giostra del Saracino vede sfilare anche gli emblemi ed i cavalieri delle famiglie nobili della Città e del contado, che nei territori abbinati ai quartieri possedevano la dimora o avevano avuto feudi e consorterie, quindi peso politico e militare prima dell’ascesa del libero Comune. In questo modo si riesce a dare alla manifestazione una giustificazione e un collocamento storico chiaro.
Al Quartiere di Porta Crucifera sono assegnate le casate di città dei Bacci, Pescioni, Brandaglia, Bostoli e per quanto riguarda il contado i Conti di Montedoglio ed i Nobili della Faggiuola.
Sul cominciare del secolo XI si trovano signori di Sassello, poi di Cafaggio, di Capolone e della Chiassa. Ebbero nobiltà in Arezzo, in Pesaro e in San Marino. Dessa si vuole derivi dai Langbardi di Sassello che è un piccolo castello nel territorio di Capolona e da Baccio famoso Capitano si dissero de Bacci; si dice ancora che son della medesima consorteria de Conti Alberti de Catenaja.
Furono inizialmente di parte Ghibellina, poichè li vediamo tra i Ghibellini che giurano la società fatta con i Senesi nell'anno 1251. In seguito, si dividerà in due rami, Ghibellini e Guelfi da cui i Bacci neri e Bacci bianchi com'è noto e pubblico in questa città.
Possedevano case in Arezzo a Porta Crucifera fin dall'anno 1229 come si rileva da diversi protocolli che esistevano nell'Archivio de' Priori della Città di Arezzo e dagli estimi nella Pubblica Cancelleria.
Si acquistò pure grandissima fama di devozione in Arezzo, perchè innalzò moltissime chiese e altari e cappelle, e le dotò ampiamente. Di fatto nella chiesa di San Francesco di Arezzo fu dalla detta famiglia eretto il coro e l'altare maggiore verso il 1461, e poi fatto affrescare da Piero della Francesca; come pure l'altare dell'Annunziata, e molti furono li altari e cappelle fondate, da loro, ' che troppe parole vorrebbonsi.
Il loro stemma è d'argento, alla banda d'azzurro, caricata di tre stelle di sei raggi d'oro, e accompagnata in capo da una testa di leone al naturale, lampassata di rosso.
Un bell'esempio del loro emblema si vede ancora nel cortile di palazzo Bacci in via Cavour. Imponente edificio trecentesco, anticamente munito di potente torre che levava all'angolo con il Corso. Questo cantone è conosciuto come il Canto dei Bacci ed ha avuto sempre grande importanza come punto di vita cittadina.
I membri di questa famiglia, inizialmente feudatari del basso Casentino una volta inurbata si fecero conoscere come grandi mercanti, ebbero poi uomini di grande importanza nella vita cittadina, nella cultura, nella religione e nell'arte. Raccoglitori di opere d'arte donarono la loro pregevole raccolta alla Fraternita dei Laici nel 1850, fondando i futuri musei cittadini.
I Bostoli furono tra le primissime famiglie di Arezzo per nobiltà, influenza politica e ricchezza. Con gli Albergotti e i Camaiani furono a capo dei guelfi cittadini. Il loro stemma era inquartato, cioè diviso in quattro parti a croce di S’Andrea. Due rossi, due argentei; la banda arricchita da gigli d’oro.
Il loro palazzo, al centro della città, di fronte a quello dei Bacci è stato completamente trasformato e manomesso nei secoli. I Bostoli si ponevano al vertice della aristocrazia aretina, superiori agli Albergotti e Camaiani. Guardavano dall’alto in basso i Tarlati e gli Ubertini e costituiva loro vanto accreditare una antica leggenda che voleva il martirio di S. Donato avvenuto nei pressi del loro palazzo.
In una società che aveva superato da poco la paura dell'anno Mille, una profezia sosteneva che il mondo sarebbe finito, la società si riprende e prova a reinventarsi. E' in quel clima di stupore e di voglia di vivere che nascono molte delle famiglie di mercanti che saranno protagoniste della storia di Arezzo nei secoli a venire. Cittadini intraprendenti, mercanti di guado o di cotone, possidenti del contado. Tutti accomunati dall'intraprendenza e anche, perchè no? Dalla sete di potere.
La famiglia dei Bostoli appare per la prima volta nei documenti relativi alla consorteria dei Lambardi di Carpineto, potente famiglia di origine longobarda. Secondo alcuni documenti dell'anno 1148, i Bostoli e i Lambardi avevano un parente in comune, anche se non è certo se fosse di sangue o acquisito per matrimonio. Ciò che è sicuro è che sono proprietari di un grande palazzo posto in contrada San Martino, nel cuore della città antica. Alcuni studiosi, ad esempio il Giorgi, ritengono che la loro improvvisa fortuna derivi dai possedimenti nelle campagne di Arezzo. Quale che sia l'origine della loro ricchezza, i Bostoli diventano in breve tempo una delle famiglie più influenti della città del XII secolo.
Bostola di Ugone è il primo esponente della famiglia ad essere citato nei documenti cittadini. Nel 1148 è tra i rappresentati del comune alla firma di acquisizione del castello di Vitiano e dopo solo cinque anni raggiunge la più alta carica cittadina: il consolato.
In quel periodo Comune e Vescovado vivevano un periodo di pace. Solo nel 1203 il Vescovo sarà costretto ad abbandonare la cittadella del Pionta e venire a patti con il potere del Comune. Tra i protagonisti dello scontro tra i due poteri troviamo anche i Bostoli. Sarebbe estramemente complesso riassumere tutte le loro vicende politiche in così breve spazio, quindi soffermiamoci su un episodio curioso che vede protagonista un rampollo di questa nobile casata.
Il Pasqui ci parla di un interessante avvenimento accaduto nel 1260. La città era in festa per la nomina a cavaliere di Ildibrandino Giratasca. Al centro dei festeggiamenti c'era ovviamente un torneo, o una giostra, che possiamo immaginare abbastanza simile all'odierno Saracino. I giovani delle famiglie nobili si sfidavano in vari giochi di guerra tra cui l'hastiludio, una forma di gioco cavalleresco diffuso in Italia che prevedeva l'uso di armi di legno o armi senza lama. Al culmine della giornata era previsto la giostra con scontri individuali. A fronteggiarsi troviamo Vico de Pantaneto e Toniaccio Bostoli. Il primo riuscì a sbalzare di sella l'avversario, che cadde rovinosamente a terra. Toniaccio protestò, dicendo che era colpa di uno scarto del cavallo, ma i giudici furono severi e assegnarono la vittoria a Vico. Toniaccio dovette sottomettersi e fu portato in giro per la città su una lettiga derisoria, per essere preso in giro dai popolani. Anche se l'episodio è negativo, era comunque un privilegio perché riservato solo al ceto più potente della città.
Di Palazzo in Palazzo
Il palazzo originariamente appartenuto ai Bostoli è andato distrutto molto tempo fa, ma le loro tracce non sono scomparse, non del tutto. Anzi oggi una delle loro residenze cittadine è al centro della vita sociale di Arezzo e forse... non tutti lo sanno.
Andiamo per ordine. Il primo insediamento della famiglia era un palazzo fortificato in contrada San Martino. Per tutto il Duecento possiedono questo palazzo fortificato, anche quando la politica li costringe ad andare in esilio. Sotto il dominio dei Tarlati, siamo ormai nel Trecento, quelle abitazioni vengono espropriate, si potrebbe dire, divenendo proprietà statale per essere poi rivendute ai privati. In quel periodo però i documenti non parlano di palazzi veri e propri, ma di orti e piazze perché le rivolte del secolo precedente avevano danneggiato così tanto le loro case da distruggerle. Sì, la vita nel Medioevo era certamente movimentata.
Facendo riferimento ai documenti di epoca Fiorentina, siamo alla fine del Trecento, abbiamo maggiori notizie. Si parla di due palazzi uno sito tra San Michele e la Pieve e uno in contrada Lastreghi nel quartiere di Porta del Foro, abitate da due rami diversi della famiglia. Nel pressi dell'attuale Corso vivono i parenti di Ludovico e Meo mentre nell'altro palazzo vive la famiglia di Checco di Giovanni.
Ludovico Bostoli è stato un uomo di grande importanza, ma è del nipote Fabiano di Alberto che vogliamo parlare per descrivere il palazzo.
Fabiano era certamente un uomo colto, perché nel 1391 è tra i canonici del duomo, mentre nel 1398 è incaricato dal comune di tenere l'orazione funebre per il giurisperito Ludovico di Francesco Albergotti. Ed è lui nel 1409 a mettersi a capo di un gruppo di cittadini per tentare ancora una volta di liberare Arezzo dal dominio di Firenze. Nel 1409 la città è assediata dal re Ladislao di Napoli. I dettagli della manovra politica non sono certi, ma dalle indagini del magistrato fiorentino sappiamo che proprio Fabiano è considerato il più colpevole ed è condannato alla decapitazione. Per sua fortuna Fabiano era riuscito a lasciare la città e quindi a salvarsi la vita. Cosa ne sia stato di lui però rimane ancora un mistero. È importante dire che il ramo di Checco di Giovanni rimane estraneo a queste vicende, anzi, pochi anni dopo uno di loro viene nominato ambasciatore di Arezzo a Firenze.
E cercando negli archivi possiamo scoprire qualche dato interessante su quel famoso palazzo in Corso Italia. Dopo la condanna di Fabiano i suoi beni vengono messi all'asta, ma si salvano alcune quote ereditate dalle cugine Chiara e Mattea. Si parla di appartamenti superiori di un palazzo con a piano terra due botteghe. Le due donne finiranno per vendere al proprietario del piano terra: messer Altucci.
Il palazzo che acquista è relativamente piccolo con un lato sul Corso e uno su via Da Berardi a Perini ... oggi via Mazzini.
Ebbene sì, il famoso palazzo è proprio quello che oggi la famiglia Konz scelse per aprire il loro emporio, che è stato il bar “Gli Svizzeri” e che oggi è ancora al centro della vita sociale cittadina. Oggi lo vediamo nelle forme più Quattrocentesce nate dalla ristrutturazione degli Altucci, ma resta sempre una antica residenza di una ben più antica famiglia aretina.
I Brandaglia anticamente chiamati Guidoterni ebbero la loro avita dimora in Porta Crucifera nelle vicinanze della chiesa di S. Martino (loro patronato). Oggi la chiesa e scomparsa sotto la mole della Fortezza medicea ma è ricordata da Piaggia di S. Martino. I Brandaglia furono nobilissimi e potentissimi. Guelfi nel Trecento aspirarono alla Signoria sulla città. Ricordiamo la famosa congiura che portò i loro nome. Nel contado ebbero signoria sulla valle del Cerfone: Carciano, Colle, Castiglioncello, Ranco e Albiano.
Ebbero un loro palazzo nella odierna Via Cisalpino. Qui è visibile un loro stemma: una branca di leone che stringe una sfera su campo vermiglio.
All’interno Teofilo Torri realizzò un affresco che esaltava le gesta di alcuni membri della famiglia. Si ispirò ad un poemetto scritto dal medico e poeta aretino Emilio Vezzosi, intitolato De gente Brandiliorum. I Brandaglia ebbero vari ed illustri personaggi.
Ma il loro palazzo principale era nel Corso cittadino. Il palazzo venne incendiato nel 1351 in seguito ad un sommossa. Dell’assalto al palazzo rimane visibile lo stemma dei Brandaglia scalpellato dagli avversari politici.
Storia della famiglia
Erano legati a San Martino e, in origine, i Brandaglia si chiamavano proprio Guidoterni di San Martino.
Le loro case erano nella parte alta della città dove dal 1500 c'è la Fortezza.
Tutto andò distrutto per volontà dei fiorentini che rasero al suolo la parte vecchia di Arezzo per realizzare la vasta struttura militare e creare, attorno ad essa, lo spazio necessario per la sua difesa.
Assieme ai palazzi dei Brandaglia scomparve anche la chiesa di San Martino che si doveva trovare vicino all'antichissimo palazzo del Comune sulla sommità di Via Pellicceria.
Era la chiesa del Santo protettore dei Brandaglia come testimonia il cognome originario della nobile casata.
Quasi sicuramente costruita nell' epoca del dominio dei Franchi vicino ad altri edifici sacri oggi tutti scomparsi: San Salvatore, Sant' Angelo in Archaltis, Sant' Apollinare, San Matteo, San Donato in Cremona.
Non è da escludere che i Guidoterni siano arrivati ad Arezzo in seguito alla vittoria di Carlo Magno. Ma potrebbe anche trattarsi di una famiglia locale o, come tante altre nelle nostre zone, di origine germanica.
Già nel l300 è ormai sostituito il cognome Guidoterni di San Martino con quello di Brandaglia. Una potente e ricca famiglia che costruisce una bella dimora all'angolo di Corso Italia con Via Garibaldi in direzione di Piazza Sant' Agostino.
E un altro palazzo è al numero 26 di Via Cesalpino (fino all' 800 Piaggia di San Piero) successivamente acquistato dalla famiglia dei Centeni.
Su entrambi gli edifici campeggia lo stemma della casata: una zampa di leone che sostiene una sfera d'oro su fondo vermiglio.
Ma i possedimenti non finiscono qui.
A sottolineare la ricchezza di questa famiglia ci sono terre soprattutto nella Valle del Cerfone, a metà strada tra Arezzo e la Valtiberina. E castelli forti e torri ti come Castiglioncello, Colle, Carciano, Albiano e Ranco.
Di parte guelfa, i Brandaglia lottarono per il potere negli anni che seguirono la prematura morte del grande vescovo Guido Tarlati.
Il loro fu un vero e proprio tentativo di instaurare una signoria in città cercando di trarre il massimo profitto da una vittoriosa battaglia a Olmo contro i perugini.
Nel 1343 Arezzo riesce ad ottenere l'indipendenza dopo un breve periodo di dominio fiorentino. Il potere viene assunto dal cosiddetto Consiglio dei Sessanta anche se costanti erano il controllo e la vigilanza (con discrezione, ma anche con grande assiduità) delle città confinanti: Firenze, Siena, Perugia.
Un potere che ben presto sfuggì di mano al Consiglio al punto che, dopo tre anni, i Bostoli passarono all' azione impossessandosi del Palazzo del Popolo.
I Brandaglia, che puntavano con forza alla guida assoluta della città, subirono un duro colpo.. Ma l'occasione per riprovarci non tardò ad arrivare.
Nel 1351 l'esercito di Perugia si trovò a passare vicino ad Arezzo mentre tentava di raggiungere gli alleati fiorentini impegnati nella guerra con i Visconti. Pier Saccone Tarlati partì con i suoi uomini da Bibbiena per sbarrare la strada ai perugini.
Lo scontro avvenne ad Olmo e la battaglia fu favorevole a Perugia. Il Tarlati fu anche fatto prigioniero. Ma a quel punto da Arezzo piombarono improvvisamente sui perugini i cavalieri dei Brandaglia che liberarono Pier Saccone e sconfissero l'esercito avversario.
Forti di questa affermazione i Brandaglia tentarono, con una congiura, di prendere il potere ed instaurare così una personale Signoria ad Arezzo.
Ma il tentativo fu scoperto e i Priori, appoggiati dalla popolazione, difesero con le armi la città.
Il Tarlati riuscì a rientrare a Bibbiena. Ma i Brandaglia furono arrestati e successivamente esiliati. Le case furono distrutte. La bella dimora di Corso Italia fu incendiata.
Di cospicua entità fu l'ammenda pecuniaria che la famiglia fu costretta a pagare alle autorità cittadine.
Ma tanto grande era la potenza dei Brandaglia che dopo neanche due anni, nel 1353, erano già tornati ad Arezzo riprendendosi i loro possedimenti.
Ed ancora loro furono protagonisti pochi anni dopo di un nuovo tentativi guidato dal ve scovo Giovanni II Albergotti.
Ma erano tempi bui in cui tutte le famiglie aretine non ebbero vita facile.
Il sacco di Alberico da Barbiano e della sua terribile compagnia di ventura detta di San Giorgio. Poi il saccheggio operato dalla compagnia di ventura di Villanuccio di Bonforte.
La pestilenza del 1383. Il nuovo sacco di Enguerrand di Coucy. Fatti che sfiancarono la città e le sue nobili casate fino alla definitiva vendita (novembre 1384) di Arezzo a Firenze per la somma di 40.000 fiorini d'oro.
I Brandaglia ebbero il loro momento di massima potenza proprio in questi tempi travagliati.
Ma l'immagine è quella di una famiglia che ha attraversato il Medio Evo aretino senza mai uscire da ruoli di primo piano.
Fin dai secoli a cavallo del mille, quando ancora si chiamavano Guidoterni di San Martino ed erano sicuramente tra le casate di Arezzo più ricche e benestanti. Non a caso un Guidoterni, Gilfredo, è tra i nobili presenti all'investitura a cavaliere di Ildebrandino Girataschi.
Ne furono scelti quattro dalle autorità comunali, tra i più nobili e valorosi cavalieri della città: Andrea Marabottini, Alberto Domigiani, Ugo di San Polo e, appunto, Gilfredo Guidoterni. Avevano il compito di preparare Ildembrandino alla fastosa cerimonia.
I primi due, aiutati da nobili donzelli, spogliarono e lavarono il giovane. Ugo di San Polo e Gilfredo Guidoterni ebbero invece il primario compito di insegnargli i doveri di un cavaliere.
Compito che non deriva dal semplice fatto che Girataschi e Guidoterni erano vicini di casa. Ma, evidentemente, dal riconoscimento dell' assoluta potenza e nobiltà che Arezzo assegnava ai Guidoterni di San Martino, poi Brandaglia fino ai giorni d'oggi.
D'azzurro al luccio d'argento, posto in banda
I Pescioni uniti in consorteria coi Perini, furono antica e nobile famiglia d’Arezzo.
Erano Guelfi e dettero il nome al Canto de' Pescioni, tanto conosciuto nella storia cittadina.
Il loro stemma presenta un pesce in campo azzurro. La famiglia si estinse nel Trecento.
Le casate del contado rappresentano antiche famiglie che non si trasferirono in città, come i Montedoglio, ma preferirono rimanere nel territorio, sdegnose di venire a patti con il Comune e le nuove forze emergenti. Rimasero in parte semi autonome almeno sino alla sottomissione fiorentina, esercitando il controllo militare del territorio. Gran parte dello Stato faticosamente costruito dal Comune aretino, durante la seconda metà del Trecento, venne ad essere interessato dal fenomeno di sfaldamento operato anche dalle grandi famiglie aristocratiche del contado.
E bene precisare che il termine contado non è strettamente tecnico: si può comunque ritenere che questo termine interessi il grande territorio che durante i secoli sia rimasto durevolmente sotto l’egida politica ed economica della città di Arezzo.
D'argento, all'aquila col volo abbassato di nero, rostrata e coronata d'oro, linguata di rosso
I Montedoglio ebbero le loro origini dalla omonima contea, che aveva la capitale nella rocca di Fatalbecco. Ramo dei nobili di Caprese e di Anghiari la contea sopravvisse sino al riunione granducale. Forti e sdegnosi feudatari combatterono l’aggressività dei comuni vicini e delle grandi signorie ecclesiastiche, sebbene cadessero sotto l’abate di Camaldoli. Stretti rapporti familiari con i Tarlati, ebbero successivamente dai fiorentini gran parte delle terre una volta appartenenti alla viscontaria di Verona. Furono una delle più illustri famiglie nobiliari toscane. Stemma: un’aquila imperiale su campo bianco.
Di rosso, alla banda d'oro
I della Faggiuola in verità non erano famiglia del contado aretino. La famiglia proveniva dal territorio appenninico compreso tra Savio, Marecchia e Tevere. Colà si erano costituiti un feudo di notevole vastità. Fu Uguccione della Faggiuola a dare forza al ramo aretino che esisteva ancora nel Seicento, benché fortemente decaduto e trasferito nel contado aretino.
Quartiere di Porta Crucifera P.I. 92057120518
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FOTOGRAFIE
Alberto Santini e Maurizio Sbragi
collaborazione fotografica di Fotozoom: Giovanni Folli - Claudio Paravani - Lorenzo Sestini - Fabrizio Casalini - Marco Rossi - Acciari Roberto