contenuti tratti dal Calendario 2012 di Arezzoweb e dalla pagina facebook "sei di Arezzo se ..."
Bonicioli Del Vita Ivana famosa maga di fama internazionale conosciuta e stimata da anni nel mondo dello spettacolo del giornalismo del cinema e dello sport. Effettuava consulti di cartomanzia per telefono a libera offerta.
"Perfetta interpretazione, del passato presente e futuro cellulare 0348/2931195 riservatezza e professionalità." Questo era il suo annuncio!
Era conosciuta da tutti gli aretini per l'eleganza e raffinatezza del suo comportamento ma anche per la partecipazione a programmi televisivi di moda e di costume.
Giorgio Bonicioli era il marito di origini Rumene della Maga Bonicioli.
All’'ingresso del suo studio, al 41 di via Mazzini, si poteva leggere questo avviso: “A norma di legge è proibito a qualsiasi persona entrare nel laboratorio dello Scienziato Bonicioli, onde evitare di disturbarlo”. Ma oltreché uno scienziato il Bonicioli era un “inventore”. Numerose e celebri le sue “invenzioni”: pensiamo, per dirne una, al dispositivo per gonfiare le ruote della bicicletta continuando a pedalare.
Bonicioli si impegnò nella realizzazione della macchina per il “tempo bello”. Il nome scientifico del dispositivo era “Dissolvitore atomico B.G. chimicoelettromagnetico contro alluvioni”. Una prima versione del Dissolvitore viene sperimentata in Fortezza alla presenza di giornalisti, di operatori TV e di curiosi. L’esperimento però non riuscì perché, spiegò lo scienziato, le nuvole da disintegrare erano giunte contro l’apparecchio trasversalmente e quindi in maniera sbagliata.
Aldo era il suo vero nome, Mele d'oro il soprannome più usato nei suoi confronti; è stato il più simpatico gay che Arezzo abbia mai avuto. Scendeva dai poggi sopra Palazzo del Pero col suo ombrello verde e una borsa piena di frutti del suo orto. Per le strade della città non c'era giorno che non s'ingarellasse a parole con qualcuno. Le sue battute, pronte e argute, lo facevano un personaggio famoso e a suo modo, importante per le vie del centro. Conosceva tutti e a tutti si rivolgeva senza timore di riverenze alcune. Possedeva uno scantinato in Via Dei Cenci che avrà affittato e sfittato centinaia di volte a noi giovanotti per uso club o scannatoio. Io spero, Aldo dovunque tu sia adesso, che finalmente tu abbia trovato quello che cercavi errando ogni giorno per le strade d'Arezzo e che dove sei tu sia riuscito a far finalmente pascolare le tue "mandrie scatenate".
Tognon Biagio aretino di adozione in quanto le sue origini sono venete dopo tristi giorni passati al padiglione (neuro) trasferito al padiglioncino portava il cibo con il carrello agli altri degenti chi lo ha conosciuto lo descrive come una persona squisita ed eccezionale, frequentatore assiduo del “Barrino” in Colcitrone, famoso tra gli amici per la imitazione del coccodrillo data la sua enorme bocca lo si vedeva spesso in compagnia dell’Assunta che con la quale ha avuto un felice rapporto.
E’ rimasta famosa la sua frase ad una cena dei festeggiamenti del nostro Quartiere rivolgendosi all'allora sindaco Aldo Ducci e toccandogli la gobba “gobbo te gobbo io (avendola anch'esso) evviva.
Negli anni sessanta, durante le quotidiane escursioni di noi "brinzelloni" per il Corso, uno strano personaggio accompagnava i nostri interminabili pomeriggi.
La Sputaci, al secolo Angiolina Cipollini, era ad aspettarci seduta sotto i Portici oppure all'incrocio con via Garibaldi.
L'Angiolina, coi suoi capelli tinti con la cera da scarpe, la sua sottanona vecchia quanto lei e il suo immancabile bastone, era lì sempre, col sole e con la pioggia a raccattare mozziconi di sigaretta e ad elemosinare qualche spicciolo.
Per noi ragazzi era una fonte di sollazzo prenderla in giro per osservare poi le sue colorite reazioni che non di rado si concludevano a colpi di bastone. Nessuno sapeva la sua età, nessuno sapeva da dove venisse ma, se qualche volta non la vedevamo, calava in noi un leggero velo di tristezza.
Ci mancavano le battutaccie che proferiva, non risparmiando soprattutto le consorti dei signori bene, ci mancava in fondo la colorita reazione alle nostre "cattiverie" nei suoi confronti.
Angiolina è stata per Arezzo forse più famosa del Sindaco ed era entrata a far parte della vita cittadina. Ancor'oggi alcune sue battute sono nell'uso comune e il suo ricordo evoca tempi in cui eravamo felici per nulla e ci sentivamo tutti amici in una città che adesso non ci riconosce.
Se ne andò una mattina del 1970, senza clamore così come era venuta, lasciando un vuoto in tutti noi, poveri, ricchi, bravi ragazzi, fannulloni e perdigiorno.
Grazie Angiolina, ci hai insegnato pur con le tue sofferenze, un po' di vita vera, hai lasciato un ricordo che ci accompagnerà sempre perché fa parte del periodo più bello della nostra vita, grazie Angiolina per esserci stata.
Si vantava di aver bevuto nella sua vita, conti alla mano, quasi cinque autocisterne di vino. Non si può dire che fosse stato facile incontrare il "Mighela" sobrio per le vie d'Arezzo il tardo pomeriggio, la notte e pure la mattina. Era il più assiduo frequentatore delle "mescite del vino" luoghi al tempo molto frequentati. La camminata malferma, il naso da pugile che si toccava in continuazione nell'espressione di "in guardia", la sua rabbia contro i "grattigiani", ne facevano un personaggio preso di mira da tutti noi. Finiva sempre a moccoli e ad innocui tentativi di aggressione con l'immancabile offerta degli spiccioli per un altro bicchiere. Di lui famosa è rimasta la frase con la quale lo salutavamo: "Mighela, chiudi la bocca sennò prendi l'aceto!".
Compagna fedele ed inseparabile di Tognon Biagio, assidua frequentatrice delle cene dei Quartieri specie quelle della vittoria.
Con un piccolo compenso veniva spinta da chi glielo offriva a baciare sulle labbra all'improvviso il malcapitato di turno.
Non era difficile trovarla "Dalla Graziella" in Colcitrone dove di tanto in tanto si recava per il pranzo
Solo pochi intimi potevano permettersi di chiamarlo "Draculino" è uno dei personaggi più amati della Casa di Riposo. La sua caratteristica da sempre era far paura ai ragazzi ridendo sgangheratamente mostrando i suoi dentini aguzzi
Sono celebri le sue performance durante le trasferte delle gite facendo l'imitazione degli animali nella oramai acclamatissima canzone "nella vecchia fattoria".
Nonostante fosse sordo ed analfabeta preferiva restare solo, non voleva essere evitato e tanto meno si dedicava all'accattonaggio.
Si è sempre arrangiato onestamente, viveva in un fondo in Colcitrone, da qui e poi successivamente da un fondo in campagna fu mandato via, fece una capanna sopra un carretto, con uno scatolone. Essendo sordo la sua parlata era una cantilena; gesticolava molto e per questo divenne divertimento per i buontemponi; sempre dialogando con lui con benevolo rispetto. Il suo lavoro consisteva nel cercare stracci e ferro vecchio, inoltre a sera andava a prendere ranocchie che poi vendeva la mattina assieme al pesce in giro per Arezzo. Si racconta che andava a pesca con Stacchio e nel contare e dividere la rane, Stacchio diceva: "una a me una a te e una a Stacchio" inoltre Stacchio sceglieva le più grosse; quando il Surdino gli disse: "Stacchio … o che è paura che me mordano quelle grosse?"
Tra leggenda e malinconia: la vera storia dell'Omino d'Oro raccontata da Enzo Gradassi.
Non disturbava, non chiedeva l’elemosina, non dava confidenza, non parlava. Sembrava essere in perenne osservazione. Guardava”. Questa è la storia dell’Uomodoro.
Quell'ombra, che stazionava vicino agli incroci del cento città e che si mostrava a tutti completamente vestito di abiti color oro.
La sua vita, per molti, è stata un mistero tanto che nel tempo attorno a questa figura si sono create delle delle storie che sono rimbalzate di bocca in bocca andando ad alimentare quella che è diventata una leggenda tutta aretina. Ma chi era davvero costui che negli anni del dopo guerra e fino alla fine degli anni ’70 sostava di cantone in cantone? Un fantasma per molti.
Silenzioso, malinconico, solo. Si vestiva tutto d’oro e andava in giro con una bicicletta dorata o sostava ai crocicchi del centro di Arezzo. Lo chiamavano “Uomodoro” o “Uomo d’oro”. Attorno a questa figura era nata una leggenda secondo la quale stava in attesa di un figlio perso in guerra.
E’ il protagonista del libro di Enzo Gradassi: Uomodoro. Ruggero, Bradamante e l’Ippogrifo, edito da fuori|onda.
Racconta, attraverso una rigorosa e documentata ricerca, chi era in realtà quella persona, quali siano state le sue origini, i suoi travagli, il suo modo di far fronte alle necessità del vivere quotidiano, le sue vicissitudini.
Ne viene fuori una storia completamente diversa da quella che gli aretini hanno conosciuto fino ad oggi: il risultato è imprevedibile e sorprendente perché svela dei misteri e ne apre altri, anche per quanti, nel tempo, hanno scritto la sua presunta storia di questo uomo-leggenda senza però andare al di là di quel suo, fino ad oggi, indecifrabile mascheramento.
http://www.arezzonotizie.it/video/omino-doro-enzo-gradassi-libro.html
Il "rosso" è sempre stato il suo colore preferito: quello del dolce e profumato vino delle nostre terre.
Non c'era osteria che non lo conoscesse, non c'era tipo di vino che non avesse assaggiato.
Cleto viveva a Giovi dove aiutava il fratello idraulico anche se per lui l'idraulica era una cosa considerata inutile visto che serviva a far scorrere l'acqua. Nei momenti liberi, tanti in verità, lo trovavi alla vinicola in piazza S. Agostino oppure all'Agania di via Mazzini. tappe obbligate per lui.
Soprannominato "Don Bevivino" dagli amici e dagli altri ospiti della Pia Casa dove ha vissuto per molti anni, e da dove usciva spesso per recarsi al Centro Anziani di S. Clemente dove guardava giocare a bocce e nel frattempo si faceva il quartino quotidiano.
Da giovane aveva fatto anche il chierichetto, non tanto per la fede, quanto per il gusto del vinsanto del prete che, a suo dire, non aveva eguali.
Per anni è stato il simbolo del "Bar Gallini" dei tempi d'oro, tanto che quando fu venduto, ci si accorse che "il Conte" era accatastato come immobile. Carlo Rossi, noto a tutti come "il Conte" è stato forse uno dei personaggi più conosciuti fino alla fine degli anni '80.
Aveva fatto una mescolanza tra cognomi dei familiari e si faceva chiamare Carlo Rossi Scotti, avallando il fatto anche con l'anello d'oro con stemma nobiliare che portava con orgoglio.
L'eleganza, per lui, era un chiodo fisso, inappuntabile con suoi pantaloni rigorosamente a campana e stirati all'inverosimile.
Il lavoro non era il suo pezzo forte, un conte non può abbassarsi alle cose che fa il volgo.
La notte spesso saliva sul treno per Firenze dove diceva avesse interessi di donne e affari.
Si vantava di non essersi mai svegliato in vita sua prima di mezzogiorno e di non aver mai preso un filo di sole (cosa da topi), i suoi calzini erano rigorosamente tenuti da un paio di giarrettiere che ai giovani facevano un po ridere.
In tasca aveva una banconota da un dollaro e un assegno da svariati milioni che però non ha mai cambiato e che esibiva continuamente.
Rimasto solo le sue camicie non erano più inamidate impeccabilmente, i suoi pantaloni erano stazzonati e il suo incedere indeciso. Anche i Conti invecchiano e lui non fece eccezione.
Chi negli anni '60 non lo ha visto sfrecciare per Via Garibaldi o per via Cittadini in sella al suo motorino "Romeo" truccato all'inverosimile, come se fosse stato in una pista?
Francesco non passava certo inosservato, al vecchio ospedale si era imposto il ruolo di parcheggiatore e se uno lasciava la macchina fuori sosta potevi star sicuro che aveva già chiamato i vigili.
Lui all'ospedale ci lavorava come addetto alla lavanderia e, già da tanti anni, portava la biancheria fino al Neuro co baroccio e la miccia attaccata davanti.
Lo avevano soprannominato Agostini per la sua passione per le corse in motorino, a chi per scherzo gli chiedeva se aveva corso col famoso pilota lui rispondeva: "si ... ero il secondo".
All'epoca della redazione del calendario (2012) raccontò la sua storia come se la stesse vivendo anche se era in condizione di non potersi muovere e viveva dei suoi ricordi nell'Istituto deve furono incontrati anche gli altri che, come lui, hanno fatto parte di un passato che oramai è stato travolto dalla modernità e dalla frenesia. A noi piace però ricordare quel motorino con Francesco sopra, sfrecciare ancora per le vie del centro libere dal traffico di oggi
Minculo era un personaggio che apparteneva ad un tempo più remoto. Erano gli anni in cui i ragazzini viaggiavano con i calzoni corti. Quel "signore" del vagabondaggio lo vedevi, con la sua aria seria e dai tratti aristocratici, in giro con il motorino al quale aveva attaccato un carrettino con il quale portava di tutto ed era bersaglio dei "lazzi" dei ragazzi più "grandi" dell'epoca.
Lui non si scomponeva più di tanto agli sberleffi, una rincalzata ai calzoni alla zuava, un aggiustatina al cappello e all'immancabile foulard e se ne andava via con una scrollata di spalle e un'espressione un po truce nelle sguardo che sembrava dire "ma che cavolo ne sapere voi della mia vita?"
La Ricciola era una rivendita di olive, lupini, castagne e semi salati in fondo al Corso Italia. Di fronte ai bastioni.
Dino era nato con due grandi passioni nella vita: servire la messa e fare l'arbitro di calcio. In entrambe riuscì in maniera egregia.
Fin da ragazzo lavorò per la Pia Casa, dove soggiornava, serviva messa dalle suore e in molte parrocchie aretine, dove era conosciutissimo.
Poi decise di fare il corso per arbitri e da li è iniziata la sua carriera.
Non credo ci sia giocatore dilettante degli anni 60 che non lo ricordi: ferreo nelle decisioni rispondeva ai tradizionale "cornuto" con sonore pernacchie.
Era tifosissimo dell'Arezzo, si trovava spesso al "bar amaranto" oppure in giro per il Corso, rimaneva impresso per la semplicità dei suoi modi e per la sua grande dignità.
E' stato uno dei primi esempi aretini di "volontariato" - Può essere considerato il "P.R." della Pia Casa.
Spicchendoich era un personaggio dell’Arezzo di ieri. Ho fatto in tempo a vederlo trascinarsi con quel suo sorriso bonario e come dice Dino Sarrini: “con la sua camminata dondolante, la sua bocca a forma di tegame, i suoi occhi chiari apparentemente inespressivi, giù per Borg'unto, all'angolo di via Pescioni o in Piazza Grande, sempre pronto Piero, questo era il suo nome, ad accettare le nostre battute e a bere tutte le fandonie che gli dicevamo.”
Chissà quale era l’origine del suo nome, forse dal suo tentativo di dare indicazioni turistiche agli stranieri. Era lo stesso periodo della Sputaci e di altri personaggi che popolavano una Arezzo agricola, ma ancora semplice e con una identità!
Il suo aspetto era quello di un uomo rassegnato alla sorte, noncurante di tutto, un po’ curvo basso di statura, riuscì a sfuggire ai tedeschi durante la guerra, unico superstite di 48 persone trucidate, morì poi in Africa nel 53 per uno scherzo da vigliacco di un aretino.
Le nottate estive era abituato a farle in bianco, la sua esclamazione preferita era “sciaburdito” era un buontempone abile ballerino era anche proverbiale la sua abilità di sarto. Ad Arezzo si diceva: bello questo vestito chi te l’ha fatto?
La risposta era : Tanacca dalla finestra!
Questo dovuto al fatto che un giorno, un tizio passeggiando per il Corso vide Tanacca alla finestra e disse: ” mi proprio te devo venire a prendermi le misure per una muta di panni!”
“Un c’è bisogno disse Tanacca, fatte vedere, scostete dall’amici che te guardi bene…. Basta cusì”. Da quel giorno si sparse la voce che Tanacca era tanto abile da prendere le misure al solo vedere la persona interessata.
Personaggio noto per il suo carattere, le sue battute e per i furti di biciclette.
Non aveva casa dormiva dove capitava.
Diceva: “Quando vado a dormire un vò avere nemmeno un duino un tasca perché si murissi un vò che me troveno nemmeno un ventino”. (20 centesimi)
Non aveva vestiti e quando gli domandavano come faceva per cambiarsi, lui rispondeva: “la notte ce n’è tanta stesa sui fili a asciugare e anche se unn’è stirata io la metto cusì!”
Naturalmente ad Arezzo quando spariva qualcosa, bicilette o rubato nei pollai, Pallino veniva puntualmente cercato dalla questura e dopo averci trascorso la notte diceva: “Quando rubbo un me piglieno mai, quando un rubbo, me piglieno subeto e io dico che co’ la mi patente ce vanno tutti a caccia!”
Dei personaggi di cui abbiamo parlato in queste pagine, la Nonnina è forse quello che ricordiamo con più tenerezza.
Curva su sé stessa, i capelli bianchi raccolti a crocchia, l’immancabile borsa sdrucita, vagava per le strade del centro seguita dai suoi “gatti”.
Le sue origini non erano Aretine, la frase con cui ci apostrofava era: “cento lire alla nonna!” che immancabilmente servivano a comprare qualcosa per i suoi unici amici gatti seguite dalla consueta consegna di un Santino raffigurante Santa Rita.
Non dava certo alcun fastidio, si limitava a chiedere con discrezione qualche lira e, a volte, ti raccontava della sua vita.
Stranamente quando se ne andò, sparirono con lei anche i gatti che avevano dato un senso alla sua scelta di vagabondaggio.
Con lei se ne è andata forse la “nonna” di tutti noi ma il suono della sua nenia, è rimasto tra le vecchie vie del centro.
Certo un personaggio assolutamente discutibile, ma da alcuni lati affascinante come tutti i banditi di fine '800.
Per la storia, Federigo Bobini detto Gnicche nacque ad Arezzo nel Borgo di Santa Croce il 13 giugno 1845 da Sebastiano e Domenica, oneste persone abituate al lavoro duro e che non avevano tanto tempo da dedicare al loro figlio, al quale comunque avevano provato ad impartire una buona educazione. Ma non riuscirono nel loro intento, anzi Federigo li portò alla disperazione. Un giorno egli rubò dei soldi al padre e così Sebastiano lo denunciò alla polizia. Gnicche fuggì attraverso la campagna con alcuni amici e formò con essi una banda: il più famoso tra i suoi amici era Gigetto di Città di Castello, che veniva da tutti chiamato "Ghiora", "il terribile" e "il Menchiari".
Cominciò così a rubare e a fare violenze nei vari paesi aretini.
"Perche' Gnicche? Perché è sempre stato il mio soprannome!"
MONDO LIBERO Un bislacco inventore rumeno abitante ad Arezzo.
La storia dell'uomo d'oro in un libro di Gradassi
Quartiere di Porta Crucifera P.I. 92057120518
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FOTOGRAFIE
Alberto Santini e Maurizio Sbragi
collaborazione fotografica di Fotozoom: Giovanni Folli - Claudio Paravani - Lorenzo Sestini - Fabrizio Casalini - Marco Rossi - Acciari Roberto